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Esistenzialismo e marxismo, by Alfredo Bonanno

Transcribed from Saggi Sull’esistenzialismo, pages 243-270

Esistenzialismo e marxismo

Negli seritti filosofici contemporanei si intravede sempre più il disagio creato dall’apparente unidimensionalità dell’esistenzialismo e l’altra unidemensione del marxismo; è questo un disagio che esisteva già nella problematica di molte generazioni passate; ma il dopoguerra con le sue riproposte, con le sue necessità di modi espressivi primordiali, coi rari suoi ritoni al bisogno di approfondire e di ripercorrere anche I canali sotterranei della vita intellettuale, sembra andar creando un clima inconsapevolemente adatto a soluzioni nuove o, per meglio dire, a una riproposizione del tema.

Il nuovo cinquantennio si è aperto con una sempe magiore inquietudine riguardo la consunzione delle tradizioni auree delle grandi convenzioni che hanno formato il binario secolare dei popoli, inquietudine che si è tradotta in una necessità di rinnovamento e di ricerca: che constringe l’uomo moderno a cercare una nuova dimensione incognita con la quale possa rivelare a se stesso la parte più segreta e sconosciuta della coscienza del nostro secolo.

L’immagine realistica del marxismo, formata dalla percezione diretta e convenzionale della sua assurda applicazione statalista, resta al di fuori della nostra indagine. Tratteremo, piuttosto, delle relazioni tra questa corrente filosofica, quale reazione all’idealismo hegeliano, e l’esistenzialismo.

“È chiaro che il filosofo speculativo opera questa continua creazione solo perché tratta le proprietà universalmente note, della mela, della pera, ecc., trovantisi nell’intuizione reale, come determinazioni inventate da lui; perchè dà i nomi delle cose reali a ciò che solo l’astratto intelletto può creare, cioè alle astratte formule intellettuali; infine percheè dichiara la sua propria attività, mediante la quale egli passa dalla rappresentazione mela alla rappresentazione pera, essere l’autoattività del soggetto assoluto, ‘del frutto’. Questa operazione si chiama, con espressione speculativa: concepire la sostanza come soggetto, come processo interno, come persona assoluta, e questo concepire forma il carattere essenziale del metodo hegeliano”. (La Sacra Famiglia).

A un esame superficiale del problema potrebbe sembrare inutile qualsiasi tentativo di porre in relazione due dottrine cosi contrastanti. Mentre l’esistenzialismo vede la realtà finita dell’uomo nel rapporto privato, irripetibile, dell’uomo con se stesso, il marxismo vede la realtà finita dell’uomo nei rapporti pubblici, comuni, che sono a lui offerti o limitati dalla società e dalla sua formulazione economica. Il marxista è tutto preso dallo studio dei problemi del mondo, della realtà sociale e politica nella quale l’uomo assume il pallido riflesso di una ombra, il marxista insegue un sistema che transcende la singolarità dell’iundividuo per un fine pubblico e sociale. L’esistenzialista, dall’altra parte rimane assorto nella propria auto-contemplazione, le lotte del mondo economico gli sono indifferenti, l’esperienza di esteticità è alla base della sua esistenza e uno cupa attesa della morte è la sua speranza. Il concetto della libertà in Kierkegaard e negli esistenzialisti è proprio. In Marx diventa la libertà della struttura sociale che vive al di sopra della personalità singola e del semplice atomo costituente il complesso organismo della società.

“Hegel, concependo la negazione della negazione – in base alla relazione positiva ivi implicita – come l’unico e vero positivo, e in base alla relazione negativa pur ivi implicita, come l’unico atto vero, come l’atto con cui ogni essere attua se stesso, non ha trovato altro che l’espressione astrata, logica, speculativa per il movimento della storia, che non è ancora la storia reale dell’uomo come soggetto presupposto, ma è soltanto l’atto di generazione dell’uomo, la storia dell’origine dell’uomo. Noi spiegheremo tanto la forma astratta di questo movimento quanto la differenza che questo movimento presenta in Hegel in contrasto con la critica moderna allo stresso processo nell`Essenza del Cristianesmo di Feuerbach; o meglio spiegheremo la forma critica di questo movimento, che in Hegel è ancora non critico”. (Oekonomisch-philosophische Manuskripte).

Volendo approfondire l’esame della due speculazioni ci accorgiamo che la differenze non sono cosi evidenti come a tutta prima potrebbero sembrare: la prima comunanza la troviamo nella necessità logica che determinò la loro nascita: la polemica antihegeliana. La dottrina del grande filosofo tedesco era basata sulla conciliazione di due affermazioni contrarie: da un canto l’affermazione che chi si accinge a filosofare è l’uomo concreto, nei limit del proprio ambiente storico e con le limitazioni della sua situazione temporale; dall’altro l’affermazione che questa caratteristica concretezza del filosofo può essere contrastata soltanto dal pensiero puro, al di là del tempo e fuori dai vincoli di qualsivoglia determinata esistenza storica. L’antinomia di questa conciliazione venne per prima denunciata dall’esistenzialismo qualche cosa come cent’anni or sono, e in seguito ribadita dal marxismo. La pretesa hegeliana di una filosofia assoluta, posta fuori dal tempo e determinata da una concezione storiografica conclusa, venne dimostrata assurda e relegata nei confini dell’impossibile come la scolastica pretesa della dimostrazione di Dio. Giuti a questo punto due vie si aprivano alle future speculazioni: o dichiarerei vera la filosofia assoluta e, pertanto, affermare implicitamente che non può essere raggiunta dall’uomo, il quale deve optare per l’azione e la vita pratica, oppure dire che all’uomo non restano che le prospettive storiche particolari, concretamente inserite nella temporalità vissuta e che sole meritano il nome di filosofia. L’esistenzialismo ed il marxismo, si sono incamminati su quest’ultima strada.

Qualora si voglia prescindere da questa comunanza storica, altre e più convincenti possiamo trovarne dialetticamente.

“L’importante nella Fenomenologia di Hegel e nel suo risultato finale – la dialettica della negatività come principio motore e generatore – sta nel fatto che Hegel concepisce l’auto-generazione dell’uomo come un processo, l’oggettivazione come una contrapposizione, come alienazione e soppressione di questa alienazione; che in conseguenza egli intende l’essenza del lavoro e concepisce l’unono oggettivo, l’uomo vero perché reale, come il risultato del suo proprio lavoro. Il comportamento reale, attivo dell’uomo con se stesso come essere che appartiene ad una specie, o la attuazione di sé come essere reale appartenente ad una specie, cioè come essere umano, è possibile soltanto attraverso l’opera collettiva dell’uomo, cioè solo come risultato della storia -, e si riferisce ad esse come oggetti, ciò che anzitutto è possibile di nuovo soltanto nella forma dell’estraniazione. L’unilateralità e il limite di Hegel esporremo ora distesamente con riferimento al capitolo finale della Fenomenologia intorno al sapere assoluto: un capitolo che contiene sia lo spirito concentrato della Fenomenologia, e il suo rapporto con la dialettica speculativa, sie anche la consapevolezza che Hegel ha di entrambe [la fenomenologia e la dialettica] e del loro rapporto reciproco”. (Oekonomisch-philosophische Manuskripte).

L’esistenzialismo contemporaneo, specie nelle aperture positive effettuate da Abbagnano in Italia, da Wilhelm Szilasi in Germania, da Carlos Astrada in Argentina, ha voluto rompere il cerchio di isolamento che l’affermazione kierkegaardiana saldava intorno al singolo uomo vivente. La filosofia è innanzi tutto un colloquio tra uomini liberi da effettuarsi in una società libera. Si tratta, pertanto, più di un esistere, di un coesistere; si tratta di potere ritrovare la fede nelle proprie possibilità e in quelle dei propri simili, si tratta di rinsaldare le garanzie di veritiera, di bontà, di progresso. Non basta fermarsi alla mera constatazione della precarietà, non basta rilevare lo squilibrio e l’incompiutezza dell’esistenza, la sua inutilità e il suo rischio; occorre arrivare ad una soluzione positiva che possa strappare l’individuo dal suo sconcertante assenteismo per ridarlo fiducioso e forte in grembo alla società libera e costituita.

Marxismo e esistenzialismo più che filosofie della crisi devono, pertanto, considerasi come filosofie del superamento della crisi. Ciò che all’inizio può sembrare nebuloso e arrischiato viene sempre più guadagnando nel tempo, grazie a condizioni estrinseche che contribuiscono ad un acquisto, senza che per questo siano fatte proprie nella cerchia di una vita o nel monologo di un pensatore. Lo spessore della zona opaca sembra diminuire a poco a poco meditando, e le occasioni che si dispongono via via all’intelligenza si lasciano permeare, fissando la loro concretezza in un ulteriore bisogno di verità e di positività. L’apertura di cui abbiamo accennato nella dottrina esistenzialista si ripercuote anche negli ulteriori sviluppi del marxismo. All’uomo viene riproposta l’età dell’oro, un impregno per la società umana al suo libero sviluppo in cui potrà raggiungere la pace e la tranquillità. In questa apertura scompare la crisi che aveva generato la reazione per restare soltanto il risultato pratico, cioè l’aspetto economico, sociale, politico. “Tutti i misteri trovano la loro soluzione razionale nell’attività pratica umana”, afferma Alexandre Kojève, uno dei migliori continuatori ed estensori della filosofia del Marx.

“L’essere umano, l’uomo, è equiparato in Hegel all’autocoscienza. Ogni estraniazione dell’essere umano è quindi null’altro che estraniazione dell’autocoscienza. L’estraniazione dell’autocoscienza non vale come espressione, come espressione riflettentesi nel sapere e nel pensiero, della estraniazione reale dell’essere umano. L’estraniazione effettiva, che appare come reale, è anzi, secondo la sua più intima e nascosta essenza – messa in luce soltanto dalla filosofia -, null’altro che l’apparenza [il fenomeno] dell’estraniazione dell’essere umano reale, dell’autocoscienza. Per tale ragione la scienza che comprende questo si chiama “fenomenologia”. Quindi ogni nuova appropriazione dell’essere oggettivo estraniato appare come una incorporazione nell’autocoscienza; l’uomo che s’impossessa del proprio essere è soltanto l’autocoscienza che si impossessa dell’essere oggettivo, il ritorno dell’oggetto all’Io-personale è perciò la nuova appropriazione dell’oggetto”. (Oekonomisch-philosophische Manuskripte).

In questa dottrine una importanza pressoché unica viene data dal “problema”. L’idea romantica di stato transitorio di incertezza e di dubbio destinato alla chiarificazione col raggiungimento della verità è stata completamente eliminata. Il “problema” è un modo d’essere del soggetto che se lo propone, fa parte costituente del suo essere e ne manifesta, nella stessa esteriorità estrema, l’intima essenza. È da considerare, inoltre, il fatto che per entrambe le dottrine la soluzione di un problema non significa l’eliminazione del problema stesso e la creazione di una situazione di fatto differente da quella che esisteva prima. È invece la riproduzione del problema e la nascita di altri ulteriori.

Partendo da questa concezione tutt’altro che incoraggiante, queste dottrine hanno capovolto la situazione e si sono lanciate alla costruzione di una futura esistenza ordinata secondo le norme del più schietto intendimento positivo. Gli studiosi del marxismo con le loro ricerche hanno contribuito ad elaborare la filosofia originaria di Marx, ma nello stesso tempo l’hanno uccisa per renderla inattuale e quindi attualizzarla in seguito non come filosofia della crisi ma filosofia dell’avvenire.

“L’Enciclopedia di Hegel comincia con la Logica, e termina col pensiero puro speculativo e con il sapere assoluto con lo spirito che è cosciente di sé e si comprende da se stesso, con lo spirito filosofico o assoluto, cioè soprammano ed astratto. Perciò l’intera Enciclopedianon è altro che l’essenza tutta spiegata dello spirito filosofico, la sua auto-oggettivazione”. (Oekonomisch-philosophische Manuskripte).

Evidentemente il pericolosi una crisi resta sempre presente, e ne abbiamo fatta amara esperienza nelle vicende politiche di questo dopoguerra. L’orgoglio ingenuo del comunismo statalista è di avere percorso tutta la vicenda dell’insegnamento marxista: in realtà esso vede quel che appunto vede, e il resto, anche se lo guardasse, non lo vedrebbe, o comunque gli resterebbe ignoto: così al centro del suo cerchio d’acciaio, ignaro di una possibile rispondenza infinita, si degrada fino a smarrire la responsabilità di se stesso. Quel ridurre ogni azione a se stessa, ogni sentimento a un pubblico processo, quel degradare anzi negare nell’uomo una realtà spirituale, quale che sia, è una visione sconcertante; l’unica condizione in cui l’umanità mi appare instabile, l’unica condizione in cui mi sembra impossibile ogni sorta di sopravvivenza di quelli che sono i cardini basilari su cui si è sempre fondata la società. Così Kierkegaard: “Fai bene attenzione allo stato del contemporaneo, altrimenti, ti poni in un’illusione mendace. Ma, purtroppo, nella cristianità c’è solo un’immagine fantastica di Cristo, quella d’una figura divina affatto immaginaria, che risponde direttamente all’idea di fare miracoli. Ma tale rappresentazione è falsa, Cristo noin ha mai avuto un simile aspetto. Il cristianesimo della cristianità è una chimera in un duplice senso, e in ciò che concerne il miracolo, e in ciò che concerne Cristo. Nella situazione di contemporaneo, ti trovi fra il fatto inesplicabile (senza che ne consegua direttamente che ci`o sia un miracolo) e un uomo particolare, simile agli altri in apparenza, che compie egli stesso il fatto straordinario. La possibilità dello scandalo è inevitabile; tu devi passarvi; puoi salvarti da esso in una sola maniera: crederlo. Ecco perché Cristo dice: ‘Beato cului che non si sarà scandalizzato in me’. Ciò non era allora tanto facile come è poi diventato, sino ad averne la nausea in quella menzogna che è la cristianità; allora non bastava sentir dire che i ciechi recuperavano la vista e che i morti resuscitava, per esser subito convinti della personalità di Cristo”. (Scuola di cristianesimo).

Anche per l’esistenzialismo il pericolo della crisi rimane sempre: se nessuna scelta ha una ragione e un fondamento, sul piano del finito ogni atto è il niente. Non possiamo considerare questa concezione filosofica come l’aristocratica esercitazione di pochi spiriti oziosi, piuttosto essa rappresenta, per lo meno in forma più estensiva e di speculazione, il carattere prevalente di alcune organizzazioni di vita. Ecco come l’esistenzialista può diventare un Antonio Roquentin che cerca di ingannare la nausea della sua esistenza fingendosi uno studioso nientemeno che di storia diplomatica. Egli ha bisogno di qualche cosa che lo salvi, di qualche cosa di serio e di forte in cui credere, di qualche cosa che impedisca il ripresentarsi terribile della nausea. Svanito il sogno della gloria letteraria, va dietro alla chimera di un amore perduto, la figura della sua Anny assume per lui l’unica possibilità di alleanza col mondo, l residua speranza di un ritorno agli uomini, fuori dal nulla in cui si sente ogni giorno, sempre di più, sprofondare. L’apparenza della coze, il loro volto esteriore, il loro colore, forma, utilità prezzo sono dati dal nostro sforzo confuso di immaginarli. Il rosso di una ciliegia è dato dal tensione del nostro cervello che cerca di oltrepassare quel limite, ma che non può, che cerca d’immaginare quello che nessuno mai ha immaginato, ma che non riesce. Una lividura… una ferita… una essudazione e altro. Il rosso non si vede semplicemente, la fasti è un’invenzione astratta, un’idea ripulita, semplificata, un’idea di uomo. Ma il rosso della ciliegia oltrepassa di gran lunga la vista, l’odorato e il gusto per diventare confusione, troppa confusione e cioè niente, forse perché è arrivato a diventare troppo. Questa è la Nausea ed è anche il parto più deteriore della crisi esistenzialista. Cosi, ancora, Kierkegaard: “Per Socrate il conoscente era un esistente, ma ora l’esistente è qualificato lui una mutazione essenziale. Chiamiamo ora la non-verrà dell’individuo peccato. Dal punto di vista dell’eternità egli non può essere nel peccato, ovvero non si può supporre ch’egli sia stato eternamente nel peccato. Egli non nasce peccatore nel senso che si debba presupporlo come peccatore prima che nasca, ma egli nasce nel peccato e come peccatore. Questo lo possiamo ben chiamare peccato originale. Ma se l’esistenza ha preso a questo modo potere su di lui, egli non può più col ricordo riportarsi indietro nell’eternità. Se era già un paradosso che la verità eterna si rapporta ad un esistente, ora è un paradosso assoluto c’essa si rapporti ad un simile esistente”. (Postilla conclusiva non scientifica alle Briciole di filosofia).

Queste esperienze arrischiate non possono, evidentemente, che costituire i punti estremi di contraddizione che si dipartiscono dal filone centrale della speculazione esistenzialista e marxista. Alla prima l’uomo deve chiedere di comprendere meglio se stesso; alla seconda gli uomini devono chiedere di intendersi meglio tra di loro. Percheè la comprensione di se stesso e l’intelligenza reciproca fra gli uomini sono a fondamento di ogni opera di civiltà e benessere.

[Pubblicato sul “Corriere di Sicilia” del 20 agosto 1959. Le citazioni, soppresse nell’originale per motivi di spazio, sono state ripristinate]

Annotazioni

Il dopoguerra e una parte degli anni Sessanta, la prima metà almeno, rimangono prigionieri dei punti di riferimento legati all’idealismo crociano e a un attualismo rivisitato per motivi di bottega. Tutto il mio lavoro in quel periodo, in gran parte andato perduto, era diretto ad attaccare queste convinzioni. Anche il “Discorso sull’esistenzialismo” – questo era l’occhiello che i saggi prendevano nella forma giornalistica ridotta del “Corriere di Sicilia” – avanzava in un territorio pericoloso, fino alla fine, quando il saggio su “Esistenzialismo e cristianesmo” (andato perduto) non venne pubblicato. Avrebbero voluto da me due cose: da un lato accontentare i preti che con le loro pressioni arcivescovili cercavano di limare le mie parole, dall’altro, non impaurire il giornale che voleva “più filosofi e meno poeti”, per riportare le parole di Carmelo Ottaviano in merito ai miei articoli. Quest’ultimo personaggio, titolare della cattedra di Storia della filosofia nell’Universatà di Catania, metafisico integrale, fedele nei secoli, all’epoca stava riverniciando la propria ortodossia pubblicandone gli esiti, a puntate, sullo stesso giornale, e non vedendo di buon occhio la coabitazione con un ragazzo di vent’anni che diceva cose non proprio (per lui) digeribili.

I poeti richiamano pubblico ai vernissage e quindi i miei articoli erano letti e citati in giro – sempre in Sicilia, è ovvio – non i pesanti malloppi del guerriero filosofico, per riportare la definizione di Eugenio Garin riguardo Ottaviano. Era il massiccio impiego della stupidità – povero Gentile, martoriato nei suoi scritti, dopo essere stato, giustamente, ucciso – ad avere la meglio, come sempre accade. Per altro i miei saggi, abbastanza scheletrici e privi quasi di citazioni, non erano gran cosa, quindi alla fine soccombettero. Nel frattempo, i miei interessi, andavano ormai verso altri orizzonti.

Esente dalle malie del marxismo non lo ero, evidentemente, da quelle dell’esistenzialismo. Del marxismo mi aveva purgato l’Introduzione di Pareto al primo volume del Capitale nella edizione UTET. Ho raccontato questa storia – con relativa umoristica appendice di Labriola – e non la ripeterò qui, solo i vecchi ripetono le stesse cose e infastidiscono chi perde tempo ad ascoltarli. Più che una purga, col tempo, dopo aver letto I sistemi socialisti, divenne per me nececssario prendere di petto il problema. Non avevo intenzione di trafiggere nessun comunista. Ne conoscevo pochissimi, ma avevo al contrario tutto l’impregno diretto ad afferrare la conoscenza dell’uomo, e il marxismo, come ebbi di poi conferma, non è una vera e propria antropologia, ma piuttosto un agglomerato di economia hegeliana e filosofia positivista. Comte non lo conoscevo e questo mi infastidiva parecchio. Niente esaltazione quindi, niente fascino neanche in quel poco di letture dirette che potevo acchiappare – primo libro del Capitale, ad esempio – e non era quel tipo di sommovimento emozionale che arrivava a convincermi. Una parentesi. Durante gli scontri contro il governo Tambroni, dilagati in tutta l’Italia, a Catania venne ucciso in Piazza Stesicoro un sindacalista. Nello scontro venne ferito il mio amico Paolo Venturino, che sarà anni dopo il mio avvocato, e continua e esserlo fino ad oggi. Io lavoravo in banca nella stressa piazza, a poco più di cinquanta metri, e non mi accorsi di nulla. Eppure oggi – siamo coetanei – a settantatre anni, lui continua a fare l’avvocato e io sono nel carcere di [find greek letters for KopudaAAos] (Antene) [2010], accusato di rapina. La vita ha ben curiosi svolgimenti. Una misera beffa è la presunzione di ricavare il destino da quello che si sta facendo in un dato momento.

L’esistenzialismo mi affascinava per il suo coinvolgimento possible della poesia, del romanzo e di altre forme espressive, la musica, la pittura, la scultura, ecc. Quest’ultima parte non ebbi il tempi di prepararla, quella riguardante la musica è andata perduta insieme al mio primo Machiavelli. Il marxismo mi respingeva per due motivi, l’ascendente hegeliano – di cui masticavo poco – e il derivato autoritario, di cui avanzavo sospetti in gran parte fondati, anche se non sufficientemente articolati. Le metafore vitalistiche – leggevo la lotta di classe in questo modo – mi infastidivano, li consideravo mermente stumentali e mi dicevano poco nei riguardi dell’urgenza di capire l’uomo. Consideravo le aggregazioni partitiche e sindacali come palizzate per racchiudere gli individui e io volevo andare verso la libertà o, comunque, verso il mio songo di libertà. Vedevo i comunisti – poche le notizie dello stalinismo in mio possesso – come fatti per la disciplina, per l’irregimentazione, per l’uniformità. Non avrei saputo spiegare bene perché, la mia ribellione era troppo letterariamente intima per tradursi in qualcosa di concreto. Pur restando un povero impiegato cercavo di rompere la cappa di piombo che mi soffocava e lo facevo con ferocia e dissennatezza. Fu così che uccisi Francesca, Ma questo l’ho raccontato altrove. Non volio ripetermi. Il primo sbocco era lo studio, uno studio feroce, onnivoro, costante, petulante, imbarazzato e imbarazzante. Ma anche altri aspetti occupavano la mia vita, il poker, ad esempio, con cui guadagnavo, da professionista, comme rilevanti in ambienti non proprio perbene, i miei amori. Non voglio dilungarmi. Il marxismo venne disossato e digerito. Compreso non direi, non tutto quello che studiavo potevo capirlo, a volte ero troppo veloce e troppo superficiale, oa volte notizie di seconda mano mi condizionavano, quasi sempre la fretta mi era cattiva consigliera, ma io non mi fermavo mai. Questo continuo prodigarsi aveva un suo progetto? Non lo so, non somigliavo di certo a uno di quegli idioti di Flaubert, prima di tutto per la mia età, poi per la mia aggressività. Non mi imbarazzavano le teorie, erano gli uomini che cercavo dietro di esse e spesso non li trovavo.

Il saggio “Esistenzialismo e marxismo”, riletto oggi, è notevole pur nella sua pochezza. Pone un raffronto che è stato sistematicamente smentito dal comportmento dissennato di Sartre e solo per questo motivo andrebbe letto con attenzione. Oggi mi rendo conto che l’accenno a Hegel è troppo nascosto tra le righe, lascia intendere più che confermare. In effetti, tra Kierkegaard e Marx corre una distanza enorme e non `e consigliabile accorciarla per amore di bottega, come sembra che abbia fatto io. In questi paralleli c’è sempre qualcosa di oppressivo, si vogliono constringere dimensioni diverse a coabitare. Hegel è un totem assoluto anche oggi, forse più oggi che nel dopoguerra. La sua filosofia continua a sfondare i soffitti di tanti filosofi che si considerano al sicuro. Feuerbach è un esempio. Il materialismo è un idealismo orbo di un occhio. Io, che sono materialista, mi ritengo di guardare con due occhi – in effetti non è vero percheè proprio in questi ultimi mesi, a causa della mancanza di cure in carcere, sto perdendo l’occio destro – proprio perché il mio materialismo è anarchico, cioè non chiede a qualcosa di esterno, di solido e importante, di fargli da mallevadore. Forse questo è un altro discorso? Può darsi, ma non è stucchevole, non cerca di evadere dalle proprie responsabilità, non risulta socievole e petulante per conquistare spazi di lettura.

Un totem lo era anche Marx e poi Kierkegaard, un cielo finto, un paio di baffi posticci, insomma un camuffamento. Questi due – a prescindere da un poco probabile esistenzialismo di Marx – sono scappati via per una porticina laterale, il razionalismo positivista il primo, lo spiritualismo cristiano il secondo. Molti aspetti di questa fugu sono ancora nascosti, malgrado la congerie di sollecitazioni che c’è stata da tante parti.

Allora non avevo i mezzi per affrontare queste due fughe, oggi non ne ho la voglia né il tempo. Il priapismo onnivoro dei miei anni verdi si è ammosciato. Le parole di Abbagnano – la filosofia è colloquio fra uomini liberi – mi risuonano nelle orecchie, mai fu detto qualcosa di più banale e nello stesso tempo impossibile. Nè Kierkegaard né Marx né tanto meno Hegel erano uomini liberi, nessuno di essi, compreso il pastore maledicente, hanno contribuito a formare unomini liberi. I loro abbozzi e le loro perfettissime (Hegel) construzioni architettoniche impressionanti, sono strade ben larghe e percorribili verso la caverna dei massacri. Questo non dobbiamo dimenticarlo.

Sacampare da Hegel – o aiutarlo quando lo si tratta come un cane morto – è la professione di fede di questi due esistenzialisti filosofi sui generis -per Marx la quasi estraneità va continuamente ricordata.

Leggendoli all’epoca, sia pure con le mie modeste cognizioni hegeliane, mi rendevo conto di dovere combinare la sensibilità cristiana di Kierkegaard con l’intelligente analisi economica di Marx, il materialismo di questo e lo spiritualismo di quello. Sarebbe stato un compito affascinante, non assolto. Mi si affollavano, più in Marx che in Kierkegaard, troppi elementi in una volta, spesso stucchevoli, esposti in forma brillante, perfino giornalistica, mentre avrei avuto bisogno di spazi vuoti dove collocare il totem che restava impigliato e inesplicato. Eppure sapevo che quei dettagli racchiudevano l’essenziale non solo dei due filosofi anti-hegeliani ma dello stesso Hegel, se non altro per compensazione contrappositiva.

Lo scandalo del cristianesimo era ancora una volta l’incomprensibile Hegel degl scritti giovanili sulla religione e la crisi contraddittoria risolutiva marxista era un rovesciamento della dialettica tra reale e razionle. Tutto si connetteva con tutto, il che vuol dire che la grande filosofia del maestro parlava dell’uomo, non della ragione onnicomprensiva o spirito, come era all’uomo che fuor di ogni dubbio si rivolgevano i discepoli infedeli, almeno con qualche dubbio per Marx. Ma non arrivavo all’epoca a questa conclusione, non potevo arrivarci e quindi non potevo andare avanti su questa strada malfamata. L’uomo prima di tutto, il che significava spodestare la filosofia dalla sua lettura sovrana del grande principio del potere, smussarla nel suo ineluttabile ed eterno rifornimento della caverna del massacro.

Che il marxismo, con l’esistenzialismo, possa diri filosofia del superamento della crisi è una impressione che non potevo evitare di sottoscrivere. Ci sono in queste ipotesi di lavoro due elementi positivi che derivano dalla pratica del mondo, dove l’illusione della crisi epicentrica e dul suo possibile superamento è là, singoli giocano la propria vita sul numero sbagliato. Esistenzialismo e marxismo su questo veramente hanno qualcosa di comune. Essi forniscono quella opalescenza che agli uomini necessita per sopportare la vita, per frenarne lo slancio e incapsularla in dimensioni accettabili, cioè in grado di essere affrontate separatamente e forse frenate per fare meno male possibile.

Battere la realt`a a tutto campo, come mi illudo di fare io, non può accettare nessuna scorciatoia determinista. Andavo dietro ad accese letture, a sottointesi evidenti, forse plateali, a scene capaci di non fare dimenticare il mio sogno conoscitivo. Insomma le mie stranezze non potevano essere reclutate. E Abbagnano? Prima di tutto questo fu un auto-reclutamento, per altro di difficilissima realizzazione, e poi è durato poco. In ogni caso non si presentava con le condizioni castranti dell’accettazione di un’uniforme. Ero un giovane strano, ma ero sempre un giovane pronto a farsi affascinare dalla conoscenza. Dove stava il massimo – o almeno una delle punte massime là volevo recarmi. Non mi andava di battere tutte le strade e soltanto questo, volevo andare oltre, sempre più oltre, anche a costo di sperperare la mia vita, come è putntualmente avvenuto, a detta di qualcuno.

Pure vivendo come un impiegato, non lo ero fino in fondo. All’epoca la banca povvedeva a man salva a farci controllare da investigatori privati. Quando toccava il mio turno, una ragazza olandese che lavorava all’uffico del personale, mi avvertiva di nascota. Era quello il periodo in cui mi scatenavo di più. I bassifondi del gioco del poker non mi vedevano mai tanto come in quei quindici giorni in cui ero sotto tiro, e altro di cui non mette conto parlare. Mi circondavo di naufraghi, i miei colleghi non lo erano, non avevano fatto naufragio perché non si erano mai imbarcati per mare – i morti non intraprendono viaggi. Questi naufraghi almeno sapevano di esistenza vissuta, vivevano o avevano vissuto, anche se al momento potevano ritrovarsi con le scarpe bucate, reietti che trovavano – e trovano – il loro momento quando vengono arrestati o quando si impiccano.

Il perbenismo di coloro che leggevano Marx all’epoca (e anche oggi) non poteva non bloccarmi. Mi ricordo che il massimo del loro anticonformismo era scorreggiare in pubblico. Li trovavo pietosi e stucchevoli. Gli altri, gli esistenzialisti, o coloro che credevano di esserlo, erano più morbidi, più veri e interessanti, più eclettici, più attenti senza secondi fini, non portavano in tasca la tessera del partito, erano spesso realmente estranei ai canoni dell’epoca e, nello loro marginalità irreale, erano scandalosamente vivi.

Può darsi che anche io cercassi felicià e buona accettazione della vita, insomma quel progresso che è segno di successo. E dopo averlo ottenuto può darsi che abbia deciso di darlo alle fiamme. Dico può darsi, percheè nessuno è mai certo delle proprie decisioni, ogni scelta, per quanto audace, si rovescia sempre nl suo contrario. Noi guardiamo sempre la nostra vita con un piccolo binocolo e non siamo mai disposti a rimpicciolirla. Mi sono qualche volta liberato della soma delle mie scelte? Non lo so. Di certo non sono mai stato un seguace di Marx e nemmeno un esistenzialista. Ho sempre cercato da solo le lmie letture e organizzato le mie ricerche, anche commettendo stupidaggini o circumnavigando il mondo per arrivare alla porta accanto.

Trovare soluzioni nell’attività pratica umana era il progetto marxista, io volevo trovare prima la conoscenza per me, non avendo un progetto applicativo in cerca di soluzioni. Non c’era niente di incredibile o difficile, di misterioso o straordinario che non mi attirasse e non mi sembrasse a portata di mano. Tutto questo come effetto del mio lavoro, non come regalo di qualcuno. Non c’era intensità che non mi attirasse e, nello stesso tempo, non cx’era dimostrazione logica che non mi sollecitasse a comprenderla, cioè a farla mia. Non ero un ieratico intuitivo, andavo dappertutto fuori da un singolo alveo congeniale, intrattenendomi senza cercare prima il sigillo dell’autenticità.

Come ho di già detto non avevo idee chiare sul modo in cui il caos reggesse il mondo al posto delle scelte, ma sapevo che non si trattava di una scena campestre, c’era un abisso verso cui tutto mi spingeva e bisognava acquisire la conoscenza per saltarlo e andare oltre. Non sapevo che quell’abisso ci ospita tutti di già al proprio interno, si tratta solo di non lasciarsi soffocare dalla melma.

Il fascino dell’ignoto, il rischio di non trovare niente nella paura a parte la paura stessa, l’equilibrio della verità catturata una volta per tutte, come promettevano i marxisti, la ricerca del dettaglio proibito, condannato da tutti, messo all’indice, come ciò che non va mai accettato, tutto questo mondo mi invitava a scoprirlo a rischio della mia credibilità. Dopo tutto avevo da perdere solo il mio futuro, e per un giovane è prezzo a portata di mano. Più si dispone di una cosa e meno la si considera di valore.

In fondo questi saggi, compresi quelli andati perduti o non scritti, avevano un profondo senso comune, non erano, come si potrebbe pensare, una mia adesione acritica all’esistenzialismo, al contrario erano il mio biglietto amaro e salato di ringraziamento ad Abbagnano. Essi erano tutti istantaneamente – me ne accorgo ora più che allora – antipositivi, non negativi o nullisti, erano altrove sveltamente, econ una imperturbabile operazione di sostituzione. Ecco perché avevo bisogno di una sovrabbondanza di significati, di scavare nella imbalsamazione della realtà, nella univocità di ogni accadimento. Facevo elenchi di significati e di corrispondenze come dieci anni prima avevo compilato elenchi degli animali e degli alberi persenti nei libri di Salgari. Non ammettevo soluzioni di problemi – cosa che nei saggi più volte è detta con attenzione – come se si trattasse di tediose incombenze. Non mi attiravano molto – forse per deficienza di comprensione – i sontuosi sistemi filosofici equipaggiati di tutto punto. Non andavo a caccia di simulacri per distruggerli, semplicemente il ignaravo.

Non avevo ancora appreso l’arte dell’insolenza eppure reagivo con forza ai tentativi di condizionarmi – vedi Ottaviano -, avevo invece l’esecuzione veloce per cui potevo progettare ed eseguire senza ambasce più progetti, la maggior parte dei quali filtreata attraverso lo studio. Una inclinazione naturale a incamerare conoscenza mi assisteva o forse essa stessa era frutto dell’immane lavoro? Non lo so. In fondo so poco di quei miei lontani anni e mi sforzo di ricordare – rinchiuso qui dentro – quella velocità di esecuzione, quelle quaranta pagine giornaliere scritte a macchina, ma non mi sovvengono che scene familiari, di una famiglia a cui sarei in brevo tempo risultato estraneo. Sono sempre lo stesso lavoratore della frase, una dopo l’altra, inanello migliaia di sequenze. Hanno esse una logica progettuale intrinseca o rispondono solo a necessità di completamento dei miei libri lasciati a metà o smarriti per strada? Non lo so. Essenziale è per me questa ripetizione che sto realizzando qua, un contrappunto tra due insiemi remoti tra loro, un lavoro funambolico, a volte ossessivo. Ma non essendo diffidente verso i miei mezzi, non lo sono nemmeno verso i miei scopi. Mi lancio a girovagare, progetto o modo di salvarmi la vita? Girovagare nei miei pensieri fino a renderli caotici e in contrasto tra loro, disegnando turbolenze forse mai avvertite da me prima. Che ne faccio della mia vita? Quando è stata vissuta non sarebbe meglio buttarla via come uno straccio?

Esistenzialismo come filosofia della crisi? Non proprio. Molti lo pensavano, e anche io, ma non avevamo le idee chiare. Il mondo precipita sempre di più nel baratro del massacro e le filosofie gli indicano la strada. Che senso ha parlare di crisi? Ho i capelli bianchi e le mani fredde, ho vissuto tanto tempo praticamente sempre a fronteggiare una crisi in corso, o quello che tale gli altri reputavano, io sapevo benissimo che il maneggiare massacri non entra mai in crisi, si rinnova e dalla linfa filosofica trae nutrimento e forza. I filosofi si affacciano sulla storia e ne tracciano il percorso a posteriori, poi le loro teorie scavano i letti dei futuri fiumi che confluiranno nella caverna degli orrori. Sentirsi interprete della crisi dava a tanta gente, all’epoca, l’impressione di essere, ma si trattava di luci artificiali proiettate su un disegno, la realtà era altrove, nel cortile starnazzavano i soliti animali incompatibili con la conoscenza. Di altro filtro avrei avuto bisogno, non delle edulcorazioni positive di Abbagnano, delle sue piacevolezze piuttosto goffe, dell’assurda pretesa di assegnare compiti ricompositivi alla filosofia. Di altre strade da battere, di percorsi più accidentati ancora, non di consigli per gli acquisti. Mi ritrovavo io stesso a decidere di spostare lo sguardo, di divagare con tenacia, di ricostruire giochi di specchi allo scopo di increspare la tela che volevo disegnare. La desolazione mi ammaliava, la osservavo attentamente mentre mi occupavo della conoscenza, sorprendevo così squarci di umanità che non si trovavano nei libri, meno che mai nei libri dei filosofi.

Non era la crisi ad affascinarmi ma la desolazione del mondo, la sua – e la mia – aridità, l’incapacità di capire man mano che la conoscenza aumentava. Perchè questo contrasto inaspettato? Non c’`e forse qualcosa di ulcerato in una bulimia che non cessa bai di ingozzarsi? L’esempio non è accidentale, inghiottire conoscenza è una forma di difesa contro il mondo da cui ci sentiamo attaccati cosi, gonfiandoci, intimidiamo gli eventuali aggressori. E la conoscenza, accumulandosi, si espande sempre più dentro di noi, riempie la nostra naturalezza come un bubbone di malattia e ci fa male. Ebbene, il fatto è che questo male piace. Sentirsi pieni piace, anche se poi si viene costretti dalla stessa logica delle cose, ad ammettere che si è pieni di niente. La ferocia nasce da questo niente, anche l’assassinio e la caverna del lago di sangue vengono alimentati da questo niente. Mi si potrebbe obiettare che molti ebeti vuoti e privi di contenuti conoscitivi, sono massacratori, anzi che questo `e proprio il modello comune e ricorrente del massacratore. Non sono d’accordo. Queste bestie – e qua, nel braccio, ci sono esemplari a centinaia – sono espressione inconsapevole della ferocia umana, il portatore di conoscenza no, compie i massacri consapevolmente, `e feroce non perché bestia ma perché bestia provvista di conoscenza. Ho fatto altrove il discorso sulla sapienza, non voglio ripetermi. Limitarmi non mi è mai stato possible.

Il mio rapporto con l’esistenzialismo per come è indagato in questi saggi è opaco, mostra ma non dimostra una malattia della vita, una catastrofe continua che non smette mai di alimentare il massacro. Non mi era possibile muovermi in un’altra direzione e intendevo proteggere il mio lavoro da ogni critica sospetta contro l’accumulazione. Non sono stato mai ecumenicamente pacifico, quindi pensavo di apprestare armi non semplici moti dell’animo. Certo, come ogni giovane avevo i miei slanci e le mie ritrosie, il coraggio di apprendere e la paura di dimenticare. Appendevo regolarmente alla mia finestra dell’anima il manifesto dell’irriducibilità ma solo per rendermi impenetrabile, in fondo la parte essenziale della mia vita aveniva in questo ostruoso travaso di conoscenza, inarrestabile come un’alluvione.

Ecco i motivi per cui il marxismo non poteva soddisfarmi e l’esistenzialismo mi attirava ma non era uno scopo plausibile per inglobare la macchina da guerra che ero. Tutti e due volevano inserimi nei loro schedari com’ è inclinazione inarrestabile di ogni Chiesa. In fondo, per essere giusti, l’esistenzialismo non poteva considerarsi una Chiesa e inoltre non ero un membro appetabile, il marxismo sì, era Chiesa e, per esso, io ero sufficientemente interessante. Avevo bisogno di muovermi, di intraprendere viaggi, di sfogare la mia rabbia compressa, e respirare non si può quando si resta chiusi in una scuola o in un partito. Non volevo la rispettabilità che da queste appartenenze deriva, la mia metodica ricerca di conoscenza era di per sé poco rispettabile perché non contrassegnata da uno qualsiasi dei marchi dominanti. In fondo, e confusamente, aspiravo a essere me stesso, il desiderio più difficile e il progetto più competo da realizzare.

La chiusa del saggio è un colpo di coda e una caduta. Nel tentativo, in fondo non del tutto fallito, di tenere insieme due cose eterogenee, avevo bisogno di trovare uno scopo accettabile e questo non poteva essere altro, all’epoca, che la civilità. Termine equivoco o – ancora peggio – abusato in tutti gli sproloqui politici. Ma per me quel termine andava in un’altra direzione, positiva comunque, ma diversa. A me bastava conoscere, era una parte consistente della mia vita, regolata quasi totalmente in questa direzione, qualificare la cultura come l’equivalente sporco della civiltà non mi apparteneva. Era uno sfogo generale che non entrava nella sostanza, non ne aveva la capacità. Mettevo i piedi in tante trappole, l’intuizione e volte me ne tirava fuori, altre volte no, meglio agiva la spontaneità, l’avventatezza. Ma non c’era disastro che potesse mettermi fuori gioco, la malattia mortale l’avevo letta non vissuta, ero corazzato contro tutte le sorprese, e questo a causa della mia stupida improntitudine. Non avevo niente di accomodante o di ecumenico ma ero tresparente nei riguardi degli sforzi che andavo facendo, filtravo e donavo agli altri quello che apprendevo. Molti attorno a me erano costretti ad amettere di avere incassato molto dalla mia munificenza. Non ci badavo, spesso ricevevo pugni in faccia proprio da coloro ai quali avevo donato di più.

E poi il fascino dell’universalità l’esistenzialismo me lo comunicava in modo strano. L’avevo appreso da De Ruggiero nel modo più ampio e da Abbagnano che risaliva a Platone più per necessità di bottega che per convincimento. Così tornavo sulle mie letture per riscontrare corrispondenze e semplici presenze, tracce e pretesti, spiegazioni e corgine di fumo. Occasioni per ritoccare le mie convinzioni o per capire di nuovo, più a fondo. Aprire molte strade, in dimensioni sempre varie, ritrovarmi sempre solo in fondo alla sala a guardare con gli occhi sbarrati lo spettacolo del mondo. Cercavo il segreto di questo diagare filamentoso dell’esistenzialismo in correnti filosoficamente disparate, lo cercavo e l’avevo sotto gli occhi. L’essere è l’unico che resta costante anche se sommerso o galleggiante, anche se può a volte sembrare lontano – vedere Hegel. La vita è quest’essere, quindi tutte le filosofie parlano della vita ma non lo vogliono ammettere. Tutti i rifornimenti della caverna del lago di sangue passano da questa reticenza.

Solo che la vita è la conoscenza meno accessibile perché è in noi pienamente, riempiendoci completamente anche quando le condizioni esterne sono ridotte al lumicino, come in questo momento. Non è stata ancora trovata una strada privilegiata, solo strade secondarie e tutte dirette a distinguerla, la vita, dal buio e dal freddo della morte, un discorso da anatomisti. A la vita sfugge a questo genere di precisazioni, riane remota e suggerisce rendiconti cifrati. Nessun segreto, nessun velo da sollevare, nessun tradimento da scongiurare, nessun essoterismo.

Chi vive deve porsi la domanda se sta veramente vivendo la sua esistenza o è solo un progressivo avvicinamento temporale alla morte, la quale arriverà puntualmente senza preavviso. Giocando a rimpiattino con l’apparenza, deve di volta in volta riprendere la strada della vita, rendendosene ronto, riflettendoci sopra, insomma deve accorgersi del vivere, non lasciare che il muscolo involontario del cuore continui a battere fino allo spegnimento. Ma la vita non vuole sottoporsi tranquillamente alle difficoltà analitiche della riflessione, reagisce, pretende imporre le sue regole senza rimorsi. Vuole farsi sentire non essere sentita. Vuole subordinare la conoscenza non essere conosciuta da questa, ridotta al rango di oggetto di studio. E siccome i filosofi hanno tutti la convinzione di vivere, eccoli tutti senza eccenzioni attribuire nomi diversi alla stessa cosa. Che mai potrebbe essere lo spirito oggettivo di Hegel? Nel dopoguerra riflettevo su queste analogie, sistematicamente sconguiurate dai filosofi e ne avvertivo l’urgenza. L’epoca ne mancava quasi del tutto.

L’essere è stato sempre oggetto della filosofia, e questo l’ho detto, ma non sempre questa ricerca è stata dichiarata dal filosofo che la sviluppava oppure semplicemente da lui capita. Qualche volta balenava in molti l’intuizione di essere fuori strada e allora si affrettavano a dimonstrare che il loro intendimento non era una ricerca sull’essere. Altre volte dedicavano tutti il loro amore e la loro sagacia indagativa all’apparire e lo sostituivano all’essere, per effeto di compensazione. Vedere Mounier.

Niente è più vicino al silenzio della loquacità. Più le parole si accumulano e, a volte, più perdono di pregnanza, evadono, scivolano sul contesto, balenano piacevolmente, giocano fra di loro e, alla fine, non accordano più al filosofo la capacità di dire, essenziale dote per chji dovrebbe dire quello che nessuno dice. Le concezioni più temerarie, i ponti più alti lanciati sull’abisso del senso, non reggono e tutto `e inghiottito dalla banalità. C’è in questo pericolo un limite all’uso della parola, non può questa diffondersi a macchia d’olio coprendo il tessuto connettivo delle cose, deve essere tenuta sotto controllo, altrimenti si svuota e suona falsa. Questo accade ai letterati – ed è poco male – e anche ai filosofi, ma in quest’ultimo caso il danno è di molto maggiore.

Dietro questa parsimonia indispensabile non c’è qualcosa da nascondere, anzi da dire, e proprio per dirla occore che le parole non perdano la loro attinenza alle cose. La filosofia – come è accaduto in parte alla matematica – è stata a volte catafratta in tecnicismi che l’hanno soffocata rendendola non polo poco comprensibilie – il che è il male minore – ma poco adatta dire la realtà. E questo svariare altrove, nei campi eterni dell’apparenza, parlando dell’essere, `e molto più grave. Il gergo degli esistenzialisti c’era ed ea pesante, arivando perfino a impegnae il tessuto della quotidianità, desideoso come mai, nel dopoguea , di una patina di estemismo che, come tale, doveva estae alla supeficie e non tasfomae niente. L’assetto della realtà era stato sconvolto e riassettato del più spaventoso evento bellico della storia, e alla fine più o meno lasciato che si frazionasse in blocchi e guerre periferiche su cui tutti cercavano di chiudere gli occhi. Proprio l’esistenzialismo suggeriva un’evasione fra le più eclatanti e così venne accettato anche da non pochi filosofi. Vi furnono ritrosie terminologiche – ad esemio, Heidegger – ma in genere tutti lasciarono andare avanti una moda che portava lettori e denaro, due cose inusitate per la filosofia.

In molti casi, come con Sartre, c’era un sospetto di vacuità, ma questo non derivava da un’attenta considerazione del lavoro filosofico vero e proprio, piuttosto dal successo editoriale dei romanzi e del teatro. Insomma non c’era modo di fissare con esattezza il calibro di un filosofo che scriveva sui tavolini dei bistrot come io scrivo adesso, e ho scritto in passato, nelle calle delle carceri. A ognuno il suo. Assolutamente insopportabile erano gli atteggiamenti degli epigoni, discepoli in effetti non voluti da Sartre e disseminati nei vari locali di ritrovo notturni della capitale francese, intenti a godere delle illusioni e delle apparenze che pur non arrivando a sostituire l’essere, di certo lo annebbiavano in una fede, in una indigenza critica che anche oggi, a distanza di tanto tempo e dopo esperienze parallele, come quella del Sessantotto, non mancano di impressionarmi.